Se si chiede a James Ivory qual è il filo rosso che lega i libri che ha scelto perché diventassero suoi film, lui non ha dubbi: “Un filo c’è. Gran parte dei miei film e dei libri che li hanno ispirati hanno per protagonista un estraneo rispetto al luogo o all’ambiente in cui si svolge la narrazione. Io amo moltissimo questa prospettiva. Adoro viaggiare e sentirmi sempre straniero, estraneo, in altri luoghi.”
E in effetti, nei suoi film troviamo una ragazza annoiatissima della sua tranquilla vita nelle campagne inglesi che viene a farsi un giretto in Italia e scopre, sotto il sole straniero della Toscana, la passione e la vita (“Camera con vista”); una borghese progressista che riceve in eredità da un’amica una meravigliosa magione, sottratta alla ricca e conservatrice famiglia di lei, i Wilcox, che non si fanno una ragione di come la moglie- madre abbia potuto lasciare ad una perfetta estranea, oltretutto piuttosto eccentrica, un bene (immobile) di famiglia (“Casa Howard”); c’è un maggiordomo che ha servito per più di trent’anni con ossequio e fedeltà un ricco uomo d’affari americano, ma in quell’estate del 1958, allontanandosi per un week-end dalla cupa Darlinghton Hall, si rende conto che la persona per cui ha lavorato con abnegazione per molto tempo in realtà è un estraneo, mai veramente conosciuto (“Quel che resta del giorno”), e uno scrittore americano che vive a Parigi tra gli anni ’60 e ’70 e sperimenta la diffidenza reciproca che caratterizza i rapporti tra il mondo fancese e quello statunitense (“La figlia di un soldato non piange mai”), solo per citarne alcuni.
Lo stesso James Ivory viene definito dalla critica “il più europeo dei registi americani”, con una formula che sottolinea appunto la sua diversità per sensibilità e temi rispetto all’industria hollywoodiana.
Il regista parla dei suoi lavori e dello speciale rapporto che lega il suo cinema alla letteratura.
Lei è l’unico regista contemporaneo capace di prendere grandi opere letterarie e tirarne fuori dei film al’altezza. Un po’ come faceva il nostro Visconti. Trova giusto il paragone?
Innanzitutto credo che molti dei testi che ho reso film non siano grande letteratura in senso assoluto ma lo sono per me. Sono tutti libri che ho amato profondamente. E’ vero, spesso il mio lavoro viene paragonato a quello di Visconti ma io non mi ritengo all’altezza di questo grande maestro.
Nella stragrande maggioranza dei suoi film, lei si è affidato alla stessa sceneggiatrice, Ruth Prawer Jhabwala, un sodalizio lungo e prolifico, che tipo di rapporto si è creato nel vostro lavoro?
Henry James diceva che ogni uomo deve andare a scuola da una donna piu’ abile, questo è stato anche il mio caso. Ruth è innanzitutto una brava scrittrice, scrive degli ottimi romanzi e forse per questo non ha paura di applicarsi ad adattare dei libri cosi’ famosi al grande schermo, anche modificandone qualcosa per tirar fuori da grandi opere letterarie, buoni film. Il suo lavoro è stato fondamentale per il mio.
Lei è diventato molto conosciuto da noi nel 1985, quando uscì “Camera con vista”, pellicola che, tra l’altro, vanta il record di durata in cartellone nelle sale cinematografiche italiane. Si può dire che quel film è un ottimo esempio di come i suoi lavori riescano a rappresentare il non-detto, necessario nel salto dalla letteratura al cinema?
In effetti questa rappresentazione del non-detto rientra nelle difficoltà che si incontrano nel lavoro di adattamento di un romanzo al grande schermo. Quando hai per le mani un libro pieno di dialoghi profondi e brillanti e devi scegliere quali mettere e quali no bè, quello è un vero rompicapo. Con Forster ho dovuto eliminare circa l’80% dei dialoghi. Per la riuscita dell’operazione diventa fondamentale il lavoro degli attori, che avendo a che fare con un dialogo piu’ serrato e concentrato devono riuscire a comunicare in pochissime battutte anche le riflessioni e i passaggi emotivi tagliati nel testo.
Nella trasposizione cinematografica de “Il Gattopardo”, Luchino Visconti, scelse di tagliare gli ultimi due capitoli del libro. Lei come si pone rispetto al problema del tradimento o del rispetto assoluto della base letteraria da cui parte?
Io parto sempre da un atteggiamento di rispetto assoluto del libro che prendo in considerazione, ma il mio lavoro è fare film. Molto spesso sono necessarie delle modifiche ai testi , anche nei finali. A volte ci sono passaggi nei romanzi a cui servono dei cambiamenti per diventare digeribili al cinema.
A me è successo di dover modificare il finale de “I Bostoniani” perchè lo ritenevo troppo poco cinematografico. E a distanza di anni ritengo ancora che quella sia stata la scelta giusta.
I suoi film sembrano molto faticosi da scrivere e da mettere in scena, è così?
E’ vero, sono faticosi, anche fisicamente, soprattutto allla mia età (80anni). Ma c’è da dire che questo è il mio mestiere e la mia passione e solo quando giro mi sento vivo. Mi è capitato di girare anche per 12 settimane consecutive, era faticoso ma non mi sentivo stanco.
Tra tutti i suoi film ce ne è uno che ama in modo particolare?
Sono molto legato a “Mr e Mrs Bridge”. E’ il mio film più autobiografico. Io sono cresciuto in una città della provincia americana come quella dove abita la famiglia del film e mio padre somigliava molto a Mr Bridge. Ho sempre amato questo film, anche la sua realizzazione è stata molto particolare. Innanzitutto la base letteraria è un’unione di due romanzi diversi: “Mrs Bridge” e “Mr Bridge”. “Mrs Bridge” lo trovai una mattina di molti anni fa a Calcutta e lo lessi mentre ero sul treno per Dehli, lo trovai subito un libro meraviglioso, lo passai alla mia sceneggiatrice che lo trovo’ anch’essa un libro meraviglioso ma un film impossibile da fare e l’ idea fu accantonata. Molti anni dopo mi trovavo a cena a casa di Paul Newman e Joanne Woodward, la moglie, mi racconto’ che era in procinto di girare una versione di “Mrs Bridge” per la televisone,a quel punto rispolverai la mia vecchia idea e le proposi di pensare ad una versione per il cinema e Paul Newman si offri’ di diventare l’altra parte, il protagonista di “Mr Bridge”. Così, dopo 15 anni dal primo incontro con “Mrs Bridge”, ci mettemmo al lavoro con Ruth che era entusiasta: adattare contemporaneamente in un film ben due romanzi, una vera sfida! A tutt’ora lo giudica uno dei suoi lavori più riusciti, e così io.
C’è un film di altri autori che per lei è stato particolare fonte di ispirazione?
“Via col vento”. E’ il film che mi ha fatto capire che cosa è il cinema. Nel 1939, quando uscì, avevo 11 anni. E’ per me parametro di eccellenza, da molti punti di vista. Tecnicamente è un film rivoluzionario. Il sonoro era stato inventato solo da 10 anni, il technicolor da 5 e ciò che ne è venuto fuori è qualcosa di straordinario. Le arti decorative applicate al cinema, la scenografia, la fotografia, i costumi, ma anche gli effetti speciali, qui raggiungono già livelli altissimi. Dal punto di vista emotivo poi, sono legato a questo film perché mia madre veniva dal Sud e suo nonno aveva combattuto con l’esercito confederato e a casa mia si sentivano spesso storie sulla guerra civile. E che dire dell’epica della storia, dell’intreccio, dei personaggi? Certo, c’erano delle imperfezioni: quella recitazione cosi’ sopra le righe è qualcosa che io oggi non accetterei in nessuno dei miei film ma tutto sommato si tratta davvero di un lavoro eccezionale.
Quando io cominciai a fare film era una pietra di paragone fondamentale, al pari del cinema di Griffith. Negli ambienti chic hollywoodiani oggi, “Via col vento”, è ingiustamente ricordato tra i sorrisi, solo per singole battute come “Francamente me ne infischio.” E qualcuno dei registi di oggi non lo ha nemmeno mai visto…
Lei ama molto Fellini, ma dai suoi film, davvero non si direbbe…
Lo amo moltissimo, sono anche andato a cercarmi i suoi primissimi lavori, introvabili negli Stati Uniti. E nei miei film, quando ogni tanto compare una nota di eccessivo o di inconsueto bè, senz’altro, nel girare il mio pensiero è andato a Fellini
Visconti, Fellini, ma il cinema italiano contemporaneo? Conosce gli ultimi 3 registi italiani vincitori dell’Oscar, Salvatores, Tornatore e Benigni?
Benigni lo ho apprezzato molto, ero in giuria l’anno che “La Vita è bella” vinse l’Oscar e votai per lui. Gli altri due non so chi siano…
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